Mi ha molto colpito la notizia della mamma positiva al tampone che manda la propria figlia a scuola.
Non solo sembra una delle conferme più evidenti ed eclatanti dei motivi per i quali il genere umano si estinguerà, ma è anche la plastica rappresentazione della difficilissima battaglia che stiamo combattendo contro il Covid.
Quali e quanti screening, quali e quanti tracciamenti potranno mai sostituire la sensibilità ed il senso di responsabilità che dovrebbe albergare in ciascuno di noi in un momento così difficile e complesso?
C’è una sorta di sindrome autodistruttiva che sta emergendo in molti di noi: l’insofferenza alle regole, persino a quelle più elementari di prevenzione, l’incapacità di comprendere le conseguenze per gli altri delle nostre azioni o delle nostre omissioni, persino una leggerezza, un tempo sconosciuta, che si sta impadronendo anche di più responsabili.
E’ come se anche le regole fossero afflitte dal famoso complesso del “nimby”, il “not in my back yard” di anglosassone memoria; quella sindrome per la quale siamo a favore di soluzioni che migliorino la nostra vita, anche a costo di accettare sacrifici o rinunce, ma solo a condizione che esse non avvengano nel “nostro giardino”, ma solo in quello dei vicini.
Motivo per il quale siamo disponibilissimi ad urlare contro gli altri per il rispetto delle regole, per stigmatizzare ogni trasgressione, ma siamo assolutamente indulgenti nel giustificare le nostre, soprattutto se poste in essere in nome della comodità o, semplicemente, di ciò che è meglio per noi.
Manca, insomma, quel senso di comunità che è essenziale per affrontare avvenimenti di portata pandemica quale quello che stiamo vivendo, e che richiederebbero un’assoluta supremazia del bene generale e del giusto universale sull’interesse privato; probabilmente è questo il vero vaccino sul quale non si è ancora lavorato: forse l’unico che potrebbe portarci fuori dall’incubo che stiamo vivendo.