Quei “partizani”di Ragusa che combatterono con il maresciallo Tito per liberare la Jugoslavia
( di Giuseppe Calabrese) – Nelle abitazioni dei partigiani “titini” di Ragusa, incorniciati ed in bella vista in salotto, c’erano gli attestati firmati dal presidente Josip Broz , meglio noto come Tito, croato e padre fondatore della Jugoslavia, per il contributo offerto alla liberazione del suo Paese.
Un riconoscimento, ma anche un segno identitario, di coloro che scelsero di combattere all’estero la battaglia per la riconquista della libertà sotto le insegne della Divisione “Garibaldi”, scrivendo pagine di grande coraggio nella cacciata dei nazifascisti. Le formazioni italiane che affiancarono i partigiani di Tito erano composte da uomini che avevano storie diverse ma accomunati dalla scelta di non consegnare le armi ai tedeschi dopo il comprensibile sbandamento seguito all’Armistizio dell’8 settembre 1943.
Un atto di grande generosità che tuttavia, in anni più recenti, è stato in un certo senso messo in ombra dalla fine del lungo e colpevole silenzio sulle stragi delle foibe, le cavità carsiche dove furono buttati ed eliminati dagli uomini del maresciallo Tito migliaia di persone per avere avuto la sola colpa di essere italiani senza che c’entrassero nulla con il nazifascismo. Una ferita che portò ben presto all’inizio del grande esodo delle popolazioni dell’Istria e della Dalmazia, anche per effetto della firma nel dopoguerra dell’accordo di Parigi sulla cessione di alcuni territori italiani alla Jugoslavia.
Emblematica la testimonianza resa anni dopo da Giovanni Padoan, nome di battaglia da partigiano “garibaldino” Vanni, che ammise sia pure con ritardo rispetto agli eccidi delle foibe in un libro pubblicato nel 1966 gli orrori commessi dai partigiani titini e descrisse così al quotidiano La Repubblica nell’edizione del 18 marzo 2005 l’aria che si respirava Trieste dopo la liberazione: <Fummo mandati a sud, in Istria –raccontò –. Ed a Trieste entrarono i titini. Quando vidi la città era notte. Non la riconobbi: scritte in juugoslavo sui muri, l’aria di una città conquistata, non liberata. Ci avevano mandato via per prendersela loro>.
L’accordo con l’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (Eplj), con inquadramento nel II corpo d’armata dell’Eplj, fu raggiunto a Berane in Montenegro tra il generale Giovanni Battista Oxilia, comandante della Divisione “Venezia”, seguito pochi giorni dopo dal generale Giovanni Valda, che era invece alla testa della Divisione “Taurinense”. La collaborazione con i partigiani titini, che conoscevano bene il territorio ed erano ben addestrati alle tecniche della guerriglia, offrì ai militari italiani un’occasione per uscire dal vicolo cieco in cui erano finiti dopo l’incertezza seguita alla firma dell’Armistizio.
La Divisione “Garibaldi”, in slavo “Italijanska Partizanska”, in marcia (da Wikipedia)
Angelo Battaglia, da me intervistato anni or sono, combatteva in un reparto di artiglieria dislocato proprio a Berane. <Dopo il rifiuto del comandante della Divisione “Venezia” di arrendersi – raccontò l’ex partigiano “titino” – assistemmo ad un massiccio volantinaggio dal cielo dei velivoli tedeschi, che passarono presto al mitragliamento delle nostre postazioni fino al 20 ottobre>. Una situazione difficile che ben presto portò alla trasformazione delle unità regolari italiane in brigate partigiane. <Dopo essere riparati sui monti ci aggregammo – ricordava Battaglia, inquadrato poi nella Divisione Garibaldi – alle truppe del maresciallo Tito, che nella primavera del 1944 ci riarmarono raggruppandoci in formazioni miste, poste sotto il loro comando.
Angelo Battaglia
<Marciavamo di notte – aggiunse – e stavamo fermi di giorno per un incappare nel fuoco nemico, che non impedì tra la fine del 1944 ed il primi mesi del 1945 di liberare Mostar> (nota nella guerra etnica per la distruzione del suo antico ponte il 9 novembre 1993 poi ricostruito nel 2004, n.d.a.) .
Ma già allora c’erano i germi della guerra civile dei primi anni ’90. Dal racconto di Battaglia emersero infatti i conflitti etnici e tra gruppi familiari: <A volte si verificavano scontri tra fratelli appartenenti a gruppi diversi, soprattutto tra i titini, che erano repubblicani, ed i cetnici, invece monarchici (il cui leader era Dragoljub “Draža” Mihailović, n.d.a.) . C’erano inoltre gli “ustascia (combattenti croati di estrema destra guidati da Ante Pavelić, n.d.a.), pericolosi fiancheggiatori dei tedeschi>.
Battaglia tuttavia ammise che la lotta di liberazione del popolo jugoslavo si concluse positivamente anche per effetto dell’appoggio fornito dagli Alleati, che <ci permisero di diventare delle autentiche unità di combattimento con continue forniture di armi, munizioni e viveri. Potevamo inoltre contare – sottolineò Battaglia – sulla consulenza e sull’addestramento di istruttori militari che ci avevano messo a disposizione gli Anglo-americani>.
Giuseppe Tumino
A descrivere l’atmosfera surreale e di grande incertezza seguita all’Armistizio dell’8 settembre fu Giuseppe Tumino, anch’egli di Ragusa, che si trovava a Boronikza, vicino Lubiana, in un reparto che aveva il compito di presidiare la ferrovia dall’alto. <Dalla notte del 9 settembre – raccontò – non passò alcun treno, l’ultimo era transitato alle 3. Il giorno dopo, il 10, tentammo di convincere il comandante di plotone ad abbandonare le posizioni. Intanto, i tedeschi ci lanciavano dagli aerei viveri, che consumammo in parte, mettendo il resto negli zaini, e guadagnammo subito la montagna, appena in tempo per sfuggire al fuoco dei loro aerei.
<Eravamo consapevoli di finire nelle mani dei tedeschi – ricordava ancora con angoscia – tanto che tenevamo una pallottola di riserva per darci la morte in caso di cattura>. Tumino combatté prima nel battaglione “Lotretti” e poi entrò a far parte della divisione “Fontanott”, che era stata intitolata a due fratelli triestini caduti nella Resistenza e formata in buona parte da lavoratori. La storia di questa brigata partigiana conduce inaspettamente ancora a Ragusa perché il suo comandante, Giovanni Paparazzo, di origini pugliesi, si trasferì nel dopoguerra nel capoluogo ibleo.
Le divisioni “Garibaldi” e “Italia” (formata invece da militari che operavano tra la Bosnia e la Dalmazia, in gran parte della Divisione “Bergamo”, che si unirono alla formazione di punta dell’Eplj, la Prima Divisione proletaria, meglio nota come “Proleterska”) non rendono appieno il livello di partecipazione dei militari italiani alla Resistenza jugoslava, che interessò anche migliaia di disertori, soldati che si unirono ai partigiani singolarmente o in piccoli gruppi ed ex prigionieri dei tedeschi. In base alle stime di fonte jugoslava, si calcola che gli italiani che si unirono all’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia furono oltre quarantamila.
Giuseppe Spampinato (da Ragusalibera.it)
Tra i militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi e che aderirono poi alla Resistenza jugoslava c’era Giuseppe Spampinato, ragusano d’adozione ma nativo di San Michele di Ganzaria, liberato dai partigiani di Tito dopo essere stato costretto per due mesi ai lavori forzati. Una scelta seguita da altri, tra cui diversi siciliani, fino alla costituzione prima del battaglione “Garibaldi” e quindi della “Divisione d’assalto Garibaldi Italia”. Spampinato assunse presto il grado di comandante di plotone e successivamente di maggiore fino a prendere il comando della Brigata “Matteotti”, composta da oltre mille uomini, e partecipò attivamente alla liberazione di Belgrado il 20 ottobre 1944, rimanendo gravemente ferito. A guerra finita ricevette ben due decorazioni dal governo jugoslavo. L’ex partigiano titino, padre di Giovanni Spampinato, il giornalista de L’Ora ucciso il 27 ottobre 1972 a Ragusa, divenne già nel 1950 divenne presidente provinciale dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) restando nella carica, nonostante i suoi ripetuti tentativi di dimettersi, fino alla sua morte avvenuta il 2 giugno del 2000.
Giuseppe Calabrese
In copertina Giuseppe Spampinato (primo da sinistra) il 17 ottobre 1943 tre giorni prima della liberazione di Belgrado
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