Le riflessioni dell’economista: “Salvare il ceto medio”

In un momento fra i più  delicati del secondo dopoguerra, la fiducia nel valore delle idee, l’impegno a cercare una soluzione chiara dei problemi, l’invito a usare le proprie energie intellettuali a beneficio della società costituiscono il lascito durevole dei grandi economisti come J.M Keynes,  Piero Sraffa, Vilfredo Pareto e altri.

di Salvatore G. BLASCO

Ai governanti il compito di onorarli. Uno di questi problemi che qui mi occupa è la penosa situazione in cui i governanti hanno ridotto il “Ceto Medio”. Sono del parere che per porre rimedio al saccheggio del ceto medio occorre usare la leva fiscale per sostenerlo.

Per l’appunto mi rifaccio alle dichiarazioni – di recente rilasciate – dal viceministro  dell’Economia e delle Finanze Maurizio Leo riguardo alla riforma fiscale  mirata ( speriamoche questa volta l’azzeccano) alla riduzione delle tasse sul ceto medio.

Finalmente il Governo riconosce l’importanza del ceto medio – sino a oggi usato come bancomat dai governanti di destra e di sinistra – e si impegna a ridurre la pressione fiscale anche per i redditi  superiori a 35 mila euro, soglia che finora era sembrata la culla dei ricchi.

Mi accingo a trattare questo argomento perché dai miei incontri professionali, oltre a i veri problemi economici e finanziari trattati, sono rimasto attonito nel sentire commercianti, imprenditori e ancora di più politici che alla mia domanda cos’è il ceto medio? Chi fa parte del ceto medio? la risposta univoca è stata: i colletti bianchi, e basta più. Da qui il mio lavoro.

Chi è il ceto medio in Italia?

Nel ceto medio vengono compresi commercianti, impiegati pubblici e privati, ma anche gruppi sociali come i liberi professionisti, il clero, e i militari.

L’espressione classe media diventa di uso comune nel xix secolo come sinonimo di borghesia imprenditoriale, per indicare cioè la classe che per reddito, prestigio potere occupa una posizione intermedia tra l’aristocrazia e il proletariato.

Detto questo per  superare il nostro scetticismo, avvalorato dal fatto che tante promesse in passato sono rimaste parole al vento, o meglio “ SUGO FINTO, è fondamentale che queste promesse si traducono in azioni del tutto tangibili.

La nostra prima constatazione è questa:

L’Italia spende oltre 800 miliardi di euro all’anno ma solo il 5% degli italiani paga le tasse per tutti. E questo è grave.

La spesa pubblica totale nel 2021  (ultimo dato fiscale ) disponibile è stata infatti di 871 miliardi, pro-capite è di 14.561 euro per abitante: ciò vuol dire  che solo il 51,01 dei cittadini versa un’Irpef  da 15.o42 a 177.701 euro e che quindi sarebbe più che autosufficiente.

Detto questo qualche considerazione occorre farla.

Allo Stato compete la spesa di una parte della ricchezza del Paese ( prodotta da aziende e da lavoratori) sotto  forma di imposte e di redistribuire,  come un buon padre di famiglia, a quella parte della popolazione che  è in stato di bisogno.

Nel fare questo lo Stato  non deve opprimere con un eccessivo carico fiscale chi produce  e chi lavora eliminando il più possibile strozzature ed eccessiva burocrazia.

Sulla base dei numeri del ministero dell’Economia e dall’Istat, va fatta un considerazione: possiamo calcolare  il valore  della redistribuzione per l’anno 2021. Tra queste, prendiamo ad esempio, la spesa della sanità la quale ammonta a 117.834 miliardi pari a 1.989 per ogni cittadino. Per garantire i servizi sanitari  al 55,75%  di italiani che in totale versano 12,9 miliardi  di Irpef, occorrono 52,749 miliardi che sono a carico soprattutto  del 13,94% della popolazione che dichiara redditi da 35 mila euro in su e che versa il 62,5% dell’Irpef.

 Cosi la spesa per l’assistenza sociale ( 144.215) e per le pensioni minime e sociali, e altro ancora che non è il caso di specificare in questa sede per non appesantire ulteriormente questa nostra analisi.

Ora la spesa maggiore degli 871 miliardi di euro purtroppo è a carico prevalentemente del solito 13,94%.

Ci riferiamo a tutti i contribuenti da lavoro o da pensione da 35 mila euro lordi in su, che pagano il 63% di tutta l’Irpef e che anche in quest’ultima legge di bilancio sono stati penalizzati.

Negli 871 miliardi ci entra anche la burocrazia. L’eterno ostacolo- Secondo i risultati dell’Osservatorio Futura rappresenta ancora un grande problema per la vita quotidiana dei cittadini, a partire da lungaggini e inefficienze. Norme poco chiare e scarsa digitalizzazione. Ma anche artificiosità e regolamenti astrusi non sembrano ancora consegnati al passato.

Quando ci costa la mala-burocrazia.

Dal Rapporto Cgia, la mala burocrazia in Italia ci costa 184 miliardi di euro all’anno. Anche questo è un paradosso da estirpare.

Da questa analisi è emerso un diffuso  di ingiustizia per il carico fiscale eccessivo  imposto  sui redditi  fissi,  sia per i lavoratori dipendenti che per i pensionati ( su questi ultimi  ulteriori quote  di sottrazione sui loro trattamenti ).

Ora si auspica  che i responsabili politici e il Governo prendono atto del malcontento e provvedono a equilibrare questa palese stortura.

Alla luce di questi dati ha ancora senso parlare di riduzione  del carico fiscale e di redistribuzione per mitigare le diseguaglianze?

 S.G.B

L’immagine di copertina tratta dal sito “Istituto Bruno Leoni”

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