La bovina Modicana e l’asino Ragusano resistenti al clima estremo nelle colonie italiane in Africa
di Giuseppe Calabrese – La lunga e gloriosa storia della razza bovina “Modicana”non finisce mai di stupire, facendoci scoprire aspetti inediti.
Chi infatti poteva immaginare che la “Modicana” e l’asino Ragusano avrebbero potuto attecchire anche nei territori delle colonie dell’Africa orientale italiana (Aoi, n.d.a.), in virtù di una capacità di adattamento a condizioni climatiche avverse. Non sappiamo però i dettagli di questa esperienza, testimoniata da due foto custodite nel “Museo civico l’Italia in Africa” di Ragusa curato dal cimelista Mario Nobile.
Finora sapevamo che i capi autoctoni provenivano dal territorio dell’ex Contea di Modica, propriamente vocato a questo tipo di allevamento, ma anche che la Modicana ha subito delle trasformazioni a seguito delle altre razze con cui è venuta a contatto.
Un esemplare di asino Ragusano in un terreno delle colonie dell’Aoi da Il Borghese
Non è chiaro se la scelta di insediare razze autoctone della provincia di Ragusa nell’Africa orientale italiana, molto probabilmente in Etiopia, fosse da considerare come un esperimento-pilota o rappresentasse invece il primo passo di un programma più ampio ed organico e, soprattutto, che tipo di coinvolgimento ci fosse degli allevatori iblei e siciliani in genere. Infatti, non è stato possibile reperire il servizio del settimanale di destra Il Borghese, fondato nel 1950 dallo scrittore Leo Longanesi, che accompagnava le due foto della bovina Modicana e dell’asino Ragusano. Sappiamo soltanto che l’articolo pubblicato sul periodico circa una quarantina di anni fa raccontava di questa esperienza sicuramente risalente intorno alla metà degli anni ’30.
Sul perché fossero stati scelti i bovini di razza Modicana e l’asino Ragusano ci viene in aiuto uno studio sul Libro genealogico della razza bovina commissionato 49 anni fa, nel 1975, al professore Giovanni Leto, all’epoca associato dell’Università di Palermo, dall’Associazione regionale dei consorzi provinciali allevatori della Sicilia. Il docente forniva infatti l’unica indicazione certa sulla grande capacità di resistenza, in particolare della “Modicana”, in condizioni climatiche e territoriali sfavorevoli. <Questa popolazione, dotata di forte impalcatura scheletrica e di naturale rusticità, è ben adattata – scrisse il professore Leto – all’ambiente siciliano, anche nelle aree che si presentano meno favorevoli per la natura dei terreni, il clima, le condizioni alimentari e quelle sanitarie>.
Una foto d’epoca di un toro di razza Modicana sullo sfondo dell’altopiano ibleo
Ma dallo studio del professore Leto emerse un altro aspetto interessante su questa <popolazione bovina a mantello rosso con accentuazioni di colore, più o meno estese, verso il nero. Non è dimostrato se il bovino rosso siciliano sia autoctono o derivato – sostenne il docente universitario –. Il Tortorelli ammettendo la discendenza lontana dal ceppo podolico, sulla base di indagini sui gruppi sanguigni condotte dal professor Moustagaard dell’Università di Copenaghen, ipotizzava una influenza dei bovini rossi dell’Europa continentale giunti in Italia con le invasioni nordiche e le dominazioni straniere, in particolare Normanna e Angioina>. Un aspetto rilevatore sulla capacità di adattamento della “Modicana” e dell’internazionalità della razza bovina prima di estendersi in gran parte della Sicilia.
Non a caso il professore Leto chiarì con estrema precisione che <nel Ragusano, grazie anche alle migliori condizioni ambientali e all’opera degli allevatori, si è evoluto un ceppo migliorato che, dalle ex Contea di Modica, ha preso il nome di “Modicana”>, anche se il territorio interessato alla sviluppo produttivo della razza bovina risultava più ampio in quanto <attualmente, in conseguenza anche del fatto che tori provenienti da Ragusa hanno operato in quasi tutta l’Isola – aggiunse il docente universitario –, il nome di “Modicana” è stato esteso a tutta la popolazione bovina originaria della Sicilia>.
Ma la presenza di agricoltori ed allevatori italiani in terra d’Africa, compresi quelli provenienti dalla Sicilia e dalla provincia di Ragusa, stava a dimostrare comunque una volontà di trasferire risorse ed abilità anche nelle colonie. Un progetto forse spinto più dall’entusiasmo e dalla stessa propaganda di regime che da un’efficace progettualità in grado di realizzare un programma reale di modernizzazione delle produzioni. In un laboratorio del 31 maggio 2015, il professore Alessio Gagliardi, docente associato di Storia contemporanea dell’Università di Bologna su “La mancata <valorizzazione> dell’Impero, le colonie italiane in Africa orientale e l’economia dell’Italia fascista” si rintracciavano i limiti di un progetto e le ragioni del suo sostanziale fallimento.
<Al momento dell’avvio delle operazioni militari contro l’Etiopia – sosteneva il professore Gagliardi – non c’era alcun programma preciso su cosa l’economia della nuova colonia sarebbe dovuta diventare dopo la conquista, né una precisa quantificazione preventiva della sostenibilità dei costi e dei vantaggi attesi. Sarebbe tuttavia sbagliato – aggiungeva infatti il docente bolognese – confondere impreparazione, scarsa conoscenza e mancata pianificazione con un disinteresse per lo sfruttamento economico dei territori coloniali. Il regime fascista si mostrò infatti disponibile a mettere in campo interventi statali e investimenti pubblici nell’oltremare decisamente più elevati di quelli realizzati dai governi del passato>.
Scendendo ancora di più nel dettaglio, il professore Gagliardi spiegava che <con la conquista dell’Etiopia, secondo i teorici del colonialismo, si poteva realizzare il progetto, fallito in Libia, di un colonialismo marcatamente “popolare”, e dare vita a un impero del lavoro» (Fossa 1938). La colonizzazione demografica si legava strettamente, nei progetti del fascismo, alla valorizzazione agraria. In concreto, il progetto della “colonia di popolamento” ricalcava, nelle linee generali, quello di colonizzazione interna messo in atto con le grandi bonifiche degli anni Trenta>. L’obiettivo non dichiarato era quello di mettere fine al fenomeno dell’emigrazione, che aveva caratterizzato la storia dell’Italia già dalla fine dell’800.
<Esso prevedeva – elencava il docente universitario – l’acquisizione da parte del governo dei terreni, il loro inserimento nel demanio pubblico e la successiva assegnazione agli apparati – come il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione, l’Opera nazionale combattenti, l’Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale e gli enti regionali di colonizzazione – cui era assegnato il compito della colonizzazione. Lo Stato avrebbe dovuto sostenere l’operazione fornendo incentivi, credito speciale, premi e sussidi per favorire la bonifica e la colonizzazione da parte delle famiglie assegnatarie dei terreni>.
Il regime ruppe ogni indugio e scelse di dare subito attuazione al progetto. <Già nell’ottobre 1935 – ricordò il professore Gagliardi –, al momento dello scoppio delle ostilità, migliaia di lavoratori – sotto il controllo del Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna – si trasferirono in Etiopia al seguito delle truppe, per iniziare la costruzione delle opere pubbliche con cui predisporre la colonizzazione. All’indomani della proclamazione dell’impero le autorità coloniali impressero una forte accelerazione, rifuggendo da approcci più graduali e calibrati sugli effettivi contesti locali. L’afflusso di lavoratori italiani nei possedimenti da allora crebbe costantemente, anno dopo anno, a ritmi, però, sempre ben lontani da quelli previsti e sperati>.
Senza considerare che <la colonizzazione demografica incontrò diversi ostacoli. Innanzitutto, i progetti del fascismo – sottolineava il docente universitario di Bologna – si dovettero scontrare con la dura realtà della mancata pacificazione dell’Etiopia: in ampie porzioni del territorio rimase attiva una vasta e combattiva resistenza>. Ne seppe qualcosa il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, vittima di un attentato in Etiopia il 19 febbraio 1937, insieme ad altri gerarchi, in occasione di una cerimonia per festeggiare la nascita del primogenito del principe Umberto II di Savoia, in cui rimase seriamente ferito dalla seconda bomba lanciata da due eritrei con numerose schegge che gli si conficcarono nel corpo, costringendolo ad abbandonare la scena pubblica per diverso tempo.
All’origine del fallimento il fatto che <la realizzazione della colonizzazione contadina fu frenata anche dai ritardi e dalle inefficienze con cui l’amministrazione coloniale – evidenziò infine il professore Alessio Gagliardi – procedette alla scelta delle aree adatte in cui intervenire e alle procedure di indemaniamento per portare le terre sotto il possesso degli enti incaricati dei progetti di colonizzazione. A determinare questi ritardi contribuirono anche le incertezze delle autorità italiane, e il dubbio, diffuso nelle élite politiche e amministrative del colonialismo fascista, che l’impiego di manodopera proveniente dalla madrepatria, remunerata molto di più di quella locale, avrebbe reso i prodotti più cari e quindi meno competitivi per l’esportazione (Brancatisano 1994; Larebo 1994). I risultati conseguiti – pur considerando il poco tempo che il governo italiano ebbe a disposizione – furono alla fine estremamente modesti>.
Giuseppe Calabrese
In copertina Una mucca di razza Modicana in un campo dell’Africa orientale italiana da Il Borghese
Alessio Gagliardi, Borghese, Etiopia, Giovanni Leto, Mario Nobile, Moustagaard, Museo civico l’Italia in Africa, Rodolfo Graziani