Strage di Via D’Amelio, dopo 30 anni il racconto di Giovanni La Perna, il poliziotto modicano che quel giorno era lì in servizio
Quel giorno io feci una promessa ad Emanuela Loi: sarei diventato uno di loro e così è stato. “Anche io oggi faccio la scorta.”
19 LUGLIO 1992-19LUGLIO 2022 sono passati 30 anni da quando un giovane poliziotto modicano (che vedete nella foto in primo piano) figlio di un ex maresciallo dell’arma, in servizio da soli 12 mesi, si ritrovò sulla scena di una delle stragi che hanno segnato la storia della Sicilia e di tutto il nostro Paese: la strage di Via D’Amelio.
Quel poliziotto si chiama Giovanni La Perna e, ancora oggi, quando parla di quel giorno i suoi occhi diventano lucidi e la sua mente vola a quella domenica pomeriggio in cui anche lui e altri colleghi avrebbero potuto perdere la vita.
“Noi facevamo con le volanti assistenza entrata e uscita, cioè il capo scorta ci avvisava e noi andavamo sul posto in Via D’Amelio, a fare dei sopralluoghi accurati e se c’era qualcosa che non ci convinceva, non facevamo venire la scorta subito, prima facevamo un controllo approfondito e dopo chiamavamo la scorta che a questo punto poteva fermarsi. Quel giorno, non abbiamo mai capito perché, questo non fu fatto, non ci chiamarono. Arrivammo solo quando era già tutto accaduto e abbiamo visto qualcosa che è difficile descrivere a parole. Ma nessuno mai ci hai aiutati a superare quello che abbiamo dovuto affrontare. Lo abbiamo superato solo grazie alle nostre famiglie.”
Cosa ti ricordi di quel giorno?
“Che apparentemente era iniziato come tanti altri. Avevamo montato servizio alle 13.00 ma solo verso le 16:58 alla radio una volante della Questura di Palermo comunica che “si è sentito un botto terrificante”. Ma la sala operativa risponde che non sa niente. Noi eravamo al Foro Italico a circa 3 Km dal luogo della strage. Avevamo fra l’altro salvato una persona che stava tentando di buttarsi a mare. Eravamo contenti per questo. Dopo pochi attimi un’altra volante dice di vedere del fumo e infine il terzo e ultimo messaggio che arriva e dice: “Emergenza. Attentato in via D’Amelio, una strage… emergenza…”. La sala operativa quindi ci dice di convergere tutti sul posto e di dare informazioni più dettagliate”
Che cosa hai visto quando sei arrivato lì?
“Quello che un poliziotto non dovrebbe mai vedere, soprattutto dopo nemmeno un anno di servizio. Trovai Beirut, anche se non ci sono mai stato, ho subito pensato alle immagini che avevo visto in televisione. Tutto era devastato. Due palazzi sventrati. C’erano detriti ovunque e polvere e puzza di carne bruciata. Passavamo su ciò che restava del corpo dei nostri colleghi, anche se non avevamo idea che fossero loro. C’era un uomo con una pistola in mano che venne caricato su una macchina. Solo dopo ho capito che si trattava di un collega. Sapevamo solo che il nostro compito di poliziotti era quello di prestare soccorso e così abbiamo fatto. Qualcuno stava spirando e ti guardava per chiedere aiuto. Chiamammo subito i soccorsi ma questi non arrivavano, o comunque, quei minuti che passavano sembravano ore. Non hai tempo per pensare. Una collega grida “sono tutti morti”. Nel frattempo, arrivò un signore con un bambino in braccio che chiedeva aiuto. Era suo figlio, era ferito. Non ci pensai un attimo, avvisai il capo pattuglia che mi stavo portando nel più vicino ospedale e che sarei tornato subito. Quel bambino, ho scoperto solo dopo qualche anno, era il nipote di un mio amico modicano. Nel frattempo, ritornai sul posto. Alzammo una macchina e trovammo il corpo di una donna, irriconoscibile. Solo dopo ho capito che si trattava di Emanuela Loi. Noi eravamo molto amici. Avevamo la stessa età. Avevamo prestato servizio insieme. Scherzavamo sui nostri dialetti. Lei era sarda ed io ero siciliano. C’eravamo salutati solo qualche ora prima. Ricordo ancora la sua immagine che scompariva dallo specchietto retrovisore mentre mi allontanavo con la macchina. Sarebbe stata l’ultima volta quella in cui l’avrei vista. Poi iniziò un via vai di persone, soprattutto giudici, che guardando i cadaveri piangevano come bambini. Mi colpì, in particolare un signore anziano che iniziò a piangere a dirotto. Era il giudice Caponnetto. In quel momento mi resi conto veramente di ciò che era accaduto. Era morto il giudice Borsellino ed i colleghi. Ebbi un attimo di smarrimento, mi chiesi chi me lo aveva fatto fare ad arruolarmi. Ricordo un carissimo collega che mi incitò, dicendomi che non potevo crollare proprio adesso. Mi asciugai le lacrime e continuai a prestare soccorso a qualsiasi persona. Non solo, in quella giornata feci più arresti che in tutta la mia vita. Purtroppo, mentre a terra i colleghi morivano avevamo a che fare con gli sciacalli che rubavano tutto quello che trovavano. Solo verso le 22, dopo cinque ore di duro lavoro, un funzionario ci chiamò per farci fare una pausa. Poi verso mezzanotte quando la sala operativa richiamò la volante arrivata per prima sul posto, ci dissero di fare rientro. Presi l’auto assegnatami e con tutto l’equipaggio rientrammo. Durante il tragitto nessuno parlò, il pensiero era rivolto ai colleghi morti ed alle loro famiglie. Arrivati in caserma posai la macchina in garage, era sporca di sangue. Poi feci una doccia per togliermi quella puzza, ma non servì a niente. Non chiusi occhio per tutta la notte. In realtà non dormì per molte notti.”
A proposito di quella puzza che non riuscivi a toglierti di dosso, molti anni dopo hai deciso di mettere nero su bianco questi ricordi racchiudendoli in un libricino dal titolo che mi ha colpito molto “A 20 anni dalla strage l’odore che non mi lascia”. Ancora oggi senti quell’odore?
“Quell’odore di carne bruciata, dei veicoli bruciati per molti anni non riuscivo a toglierlo di dosso. E ancora oggi quando devo intervenire sul luogo di un incendio e prestare soccorso mi tornano in mente quegli odori.”
Dopo 30 anni il ricordo di quel giorno è ancora vivo?
“E’ ancora vivo soprattutto perché tutti noi che abbiamo vissuto quel giorno attendiamo ancora la verità. Attendiamo di seppellire i nostri colleghi perché crediamo che fin quando non capiranno perché sono morti non avranno pace e nemmeno noi avremo pace. Noi vogliamo conoscere la verità. Quel giorno io feci una promessa ad Emanuela che sarei diventato uno di loro e così è stato. Anche io oggi faccio la scorta.”
In un certo senso anche tu hai fatto la scorta a Borsellino…
“Dopo la Strage di Capaci, intensificarono i controlli nell’abitazione di Borsellino. In realtà noi non lo sapevamo che si trattava di casa sua. Ci fu ordinato di metterci all’ingresso dell’androne di uno stabile e di non muoverci da lì finché non fosse arrivato il cambio a mezzanotte. D’un tratto vidi una persona in pantofole uscire dall’ascensore, avvicinarsi a me e chiedermi cosa stavamo facendo lì. Era proprio lui, il giudice Paolo Borsellino. Gli spiegai che ci era stato ordinato quel servizio e che poteva avere altre delucidazioni dal capo pattuglia, che confermò le stesse cose. Il giudice, però, non ne voleva sapere e voleva che ce ne andassimo. Rientrò nell’ascensore dopo averci salutato con una stretta di mano, ringraziandoci per quello che stavamo facendo ma, ribadì che non aveva bisogno di questo servizio. Così ho conosciuto Paolo Borsellino. Lo avevo visto solo in televisione accanto al suo grande amico Falcone. Poi lo rividi un altro paio di volte proprio in Via D’Amelio quando arrivava con la sua scorta per andare a trovare la madre”.
Che anni sono stati quelli che hai vissuto a Palermo?
“Sono stato in servizio a Palermo dal 1991 al 1994. Sicuramente sapevamo di avere un compito difficile quello di garantire la legalità ad una città flagellata dagli omicidi di mafia, omicidi eccellenti, uccisioni di colleghi, tutti consapevoli che il nostro piccolo contributo era utile a fare rispettare la legge. Ma ciò che ricordo con chiarezza fu quello che non accadde prima delle stragi.”
In che senso ‘non accadde’?
“Diciamo che dopo l’assassinio di Salvo Lima avvenuto il 12 marzo del 1992 ovvero esattamente due mesi prima della strage di Capaci, a Palermo non successe più niente. Non ci furono omicidi, furti, insomma non ci furono fatti rilevanti da un punto di vista della criminalità. Passavamo le giornate senza fare niente, pensate che eravamo circa quarantacinque agenti in giro per Palermo ma non accadeva nulla. Eppure, gli anziani del luogo sapevano che in realtà quel periodo di calma era solo apparente, da lì a poco, dicevano, sarebbe successo qualcosa di eclatante. La mafia, infatti, si stava organizzando e così fu ed il 23 maggio accadde la Strage di Capaci. E anche in questo caso gli anziani del posto dicevano che non sarebbe finita li. Ed infatti dopo altri mesi di calma apparente, avvenne quella di Via D’Amelio. Potete immaginare quanto fui felice quando arrivò il giorno del mio trasferimento da Palermo. Anche se oggi rimpiango quei tre anni passati lì, in mezzo a tanta brava gente, perché Palermo non è mafia, Palermo è una splendida città, con splendida gente, e con i colleghi che ho lasciato siamo rimasti molto più che amici, quasi fratelli. Uno fra questi è Antonio Vullo, l’unico agente sopravvissuto alla strage”.
Per molto tempo non sei riuscito a parlare di quel giorno perché?
“Dopo giorni difficili, in cui avevamo anche dovuto assistere i familiari delle vittime, portare loro conforto anche se noi stessi avremmo avuto bisogno di essere aiutati e ascoltati, quando arrivai a Modica avevo solo bisogno di dormire e stare da solo. Appena vidi la mia ragazza che oggi è mia moglie l’abbracciai ma non riuscì a piangere. Mi diressi verso la mia stanza e rimasi chiuso lì. Solo dopo molto tempo ho iniziato a parlare di ciò che un giovane poliziotto come me aveva visto e provato quel triste 19 Luglio. So che molti dei miei colleghi ancora oggi non ne parlano. Sono trascorsi 30 anni da allora, sono padre di due splendide fanciulle, ma ogni volta che giunge questo triste anniversario, ho la morte nel cuore, non riesco a non piangere. E soprattutto oggi, che sono uno di loro, prego sempre il Signore di poter fare rientro a casa, dalla mia famiglia, ma non ho paura perché come diceva il giudice Borsellino “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Io sono un poliziotto e ho scelto di difendere questo Stato e questa Bandiera a cui ho giurato Fedeltà e soprattutto ho promesso a me stesso che non solo non avrei dimenticato i miei colleghi ma avrei fatto in modo che anche negli altri, attraverso il mio ricordo, restasse viva la loro memoria”.
Nella foto di copertina, Giovanni La Perna nel luogo dell’attentato in via D’Amelio.
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Fabio Lorefice
Un articolo molto interessante e commovente
Giovanni Stracquadanio
Ciao Giovanni solo adesso sto leggendo questo articolo sulla tua bruttissima esperienza mi hai commosso, fino a piangere quando hai parlato della tua famiglia. Sei una bella persona un Amico e ho sempre avuto tanta stima di te. ❤️